La Storia
Storia Antica
Una Capitale chiamata Italia

La storia

Corfinium, importante centro di riferimento dei Peligni, che popolavano il centro Abruzzo, nel 91 a.C. divenne capitale della Confederazione dei popoli italici, detta Lega Italica, e fu ribattezzata con il nome ITALIA.

Per la prima volta nella storia questo nome assunse significato politico di patria comune alle genti della penisola.

La Lega Italica

Italia

Fin dal V secolo a.C., Roma cominciò ad espandersi verso il resto della penisola, assoggettando i popoli italici, che erano stati preziosi alleati contro il terribile Annibale, ma anche contro il famigerato Perseo, re dei Macedoni e in altre battaglie. Le vittorie e le conquiste romane, ottenute anche grazie alla partecipazione dei popoli italici, avrebbero dovuto favorire l'avvicinamento e la fusione di queste popolazioni con i cittadini di Roma. In realtà godeva delle ricchezze acquisite solo chi era in possesso della cittadinanza romana, a discapito degli esclusi da questo diritto che rimanevano in una situazione di grave disagio politico ed economico. Lo scontento generale diffusosi tra le popolazioni italiche ed il mancato consenso del senato di Roma alla loro richiesta di cittadinanza romana, provocò una vera e propria insurrezione: Peligni, Marsi, Vestini, Piceni, Marrucini, Frentani, Sanniti e, più a Sud, Lucani e Apuli, scesero in armi contro Roma tiranna, scatenando la feroce Guerra Sociale, che divampò soprattutto in Abruzzo e in Campania.

Nel 90 a.C., i ribelli istituirono un primo nucleo di Stato italiano eleggendo come capitale Corfinium, ribattezzata Italia, che per la prima volta nella storia indicava il nome della patria comune a tutti i popoli italici, che si erano contrapposti a Roma. Essi diedero vita ad un’organizzazione politica vera e propria, eleggendo un senato di 500 membri, 2 consoli, il marso Quinto Poppedio Silone ed il sannita Caio Papio Mutilo, e 12 pretori. I confederati Italici sancirono e simboleggiarono la loro unità politica e di intenti coniando una moneta comune, che riproduceva la cerimonia del giuramento di fedeltà comune alla causa. In questo modo la neo-capitale Corfinium voleva contrastare il monopolio della moneta romana e testimoniare l'importanza politica che comportava la nascita di questo nuovo “Stato”.

La moneta in argento, principale simbolo dell'alleanza tra le popolazioni italiche, raffigura nel dritto un volto femminile coronato di alloro come personificazione dell'ITALIA, nome latino inciso esplicitamente, e nel rovescio un’immagine del giuramento tra i guerrieri italici con le spade protese nell'imminenza del sacrificio animale di un porcellino, come da cerimoniale dell'epoca. A quel tempo il valore della moneta italica era di un “denario” e costituiva la paga giornaliera di un soldato. È stata rinvenuta tra i resti di un santuario italico-romano in località Pizzo della Croce sul Monte Queglia, alle pendici del Gran Sasso. Un esemplare di questa moneta è oggi custodito nel Museo Civico Archeologico De Nino nel centro storico di Corfinio. La moneta italica è di straordinaria importanza, poiché rappresenta la prima testimonianza epigrafica nella storia dell’uso del termine “ITALIA”: un nome e un progetto unitario che quella guerra consegnò alla storia della nostra penisola, facendone il nome della nostra Nazione e il simbolo di una comune identità nazionale che fu suggellata per la prima volta, oltre 2000 anni fa, col sangue dei nostri antenati. Il termine "Italia" non sarebbe altro che un prestito linguistico della parola Viteliù di origine osca al greco che a sua volta la passò al latino, dopo che la "v" era decaduta. Si tratta di una spiegazione piuttosto ricorrente e veniva motivata col fatto che Víteliú significasse "terra di bovini giovani", in lingua osca. Questa tradizione poggia sul fatto che il toro era un simbolo molto diffuso presso quelle genti della penisola che, al centro-sud, si opponevano all'avanzata della cultura romana. Perciò si può ben dire che in Abruzzo nacquero il nome, il concetto e l'idea dell'Italia.

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Corfinium e i peligni

La storia

I Peligni erano un popolo italico di lingua osco-umbra, storicamente stanziato nel I millennio a.C. nella Valle Peligna, parte centrale dell’odierno Abruzzo. I confini del territorio abitato nell’antichità dai Peligni erano nettamente segnati da elementi naturali che separavano questa popolazione dalle altre vicine: la catena formata dal Sirente e dai Monti della Meta li dividevano dai Marsi, a ovest; la catena Morrone-Majella dai Marrucini e dai Carricini, a est; il corso del fiume Aterno dai Vestini, a nord; l’altopiano delle Cinque Miglia dai Sanniti Pentri, a sud. 

Il territorio

La Storia

Si tratta di un territorio caratterizzato da conche ricche d’acqua, ancora oggi importantissima area di transito tra l’Italia centrale ed il Meridione.


Il territorio dei Peligni si suddivideva in tre parti, dominate dai tre centri: Corfinium, la capitale degli Italici durante la Guerra Sociale, Sulmo [1], patria del poeta latino Ovidio e Superaequum [2], capoluogo della parte occidentale del territorio che per primo venne in contatto con Roma.


Altri centri abitati erano Ocriticum [3], Pagus Lavernae [4], Pagus Betifulum [5] e Koukoulon [5].


Sull’origine di questo popolo gli antichi tramandano notizie contrastanti. Secondo alcuni, tra cui il linguista E. Giammarco, la loro origine è da ricondursi all’Oriente; questa ipotesi trova riscontro in elementi linguistici, che metterebbero in evidenza l’influenza delle popolazioni orientali insediatesi nel territorio peligno nel corso delle invasioni pre-indoeuropee. Esse avrebbero dato il nome del loro fiume Drin a due fiumi del centro Abruzzo: il Tirino, che nasce ai piedi di Capestrano e il Trigno, che segna il confine tra Abruzzo e Molise.

La provenienza dei Peligni è indicata da Festo con l’espressione "ex Illyrico orti", riconducendoli all’Illiria (attuale penisola balcanica); le relazioni fra la costa abruzzese e il litorale illirico sono state effettivamente intense e la valle del Pescara una comoda linea di penetrazione.

Ma l’ipotesi più accreditata sembra essere quella sostenuta da Ovidio, che nei suoi scritti chiama i Peligni "proavi sabini" (Fasti, IV, 79). Questa origine è molto probabile sia per la lingua osco-umbra parlata dai Peligni, sia per il loro culto di Ercole Curino. La Sabina era la zona dell’Italia Centrale compresa all'incirca tra l'alto Tevere, il Nera e l'Appennino marchigiano, in corrispondenza quindi dell'odierna provincia di Rieti e della confinante regione dell'alto Aterno in provincia dell'Aquila. Secondo Ovidio l’insediamento dei Peligni fu un effetto di quei movimenti migratori dell’antichità, detti Ver Sacrum.


Può anche darsi che ad un’immigrazione illirica sia seguita un’espansione sabina, cosicché entrambe le teorie sono da considerarsi attendibili.

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LE RIVENDICAZIONI DEI "SOCII" ITALICI

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Sul finire del II Sec. a.C., nacque nei Peligni e negli altri popoli Italici l’aspirazione alla piena cittadinanza ed alcuni uomini politici romani la favorirono, probabilmente non tanto in nome di ideali democratici quanto temendo che la povertà estrema e la conseguente contrazione demografica della classe contadina romana e italica finissero col privare Roma dell’apporto di così valenti soldati.

La Lega Italica

Italia

Era, infatti, avvenuto che la nobilitas, che già possedeva i latifondi, si era gradualmente impossessata anche dell’ager publicus, cioè di quei terreni conquistati dal popolo che, secondo la legge Licinia- Sestia del 367 a.C. (Lex de modo agrorum), mai abrogata, ma nemmeno applicata, potevano essere assegnati ad ogni cittadino fino ad un possesso massimo individuale di 500 iugeri (circa 126 ha). L’indebita appropriazione dell’agro pubblico, che era stato abusivamente occupato (da nobili sia romani sia italici) per lotti molto superiori ai 500 iugeri, rischiava di far scomparire la classe dei piccoli contadini. I pochi rimasti a coltivare piccoli appezzamenti di loro proprietà stentavano a trarne il minimo indispensabile per sopravvivere e non potevano più integrare le magre risorse lavorando come braccianti per i ricchi latifondisti, i quali preferivano servirsi del lavoro degli schiavi, più conveniente di quello dei plebei. Ciò favoriva la prolificità degli schiavi e, ad un tempo, il decremento demografico dei plebei, che erano il serbatoio principale a cui attingeva l’esercito.

Da questa situazione fu ispirata la legge agraria proposta nel 133 a.C. dal tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco, nipote di Scipione l’Africano. La Lex Sempronia agraria mirava a recuperare gran parte dell’agro pubblico e ad assegnarlo, in lotti di 30 iugeri (circa 7,5 ha), ai nullatenenti romani e italici che, nonostante il prezioso contributo di sangue richiesto loro da Roma, non avevano che “l’aria, la luce e niente altro”, come disse Tiberio in un discorso.


L’aver leso gli interessi economici dei possessori di agro pubblico, l’aver dimostrato al popolo che l’Assemblea della Plebe era l’unica depositaria della sovranità della Repubblica Romana e poteva legiferare ignorando il Senato, insieme al favore dimostrato per gli Italici contribuirono a suscitare la reazione rabbiosa e violenta del mondo politico romano. Così un gruppo di senatori, guidati dal Pontefice Massimo Scipione Nasica, assalirono i graccani ed uccisero Tiberio.

Nel 125 a.C., il console Marco Fulvio Flacco propose la concessione della cittadinanza romana agli Italici, ma il Senato si oppose fermamente. Nel 123 a.C., Caio Sempronio Gracco, eletto tribuno insieme a M. Fulvio Flacco, riprese l’azione politica del fratello Tiberio per costruire una Repubblica nella quale fosse minore il peso politico del Senato e maggiore quello del popolo e per migliorare le condizioni politiche ed economiche degli Italici. Con una nuova legge agraria, fece disporre assegnazioni di agro pubblico nel Sannio, in Apulia, in Lucania e nel Piceno; quindi propose di concedere il diritto di voto agli Italici che avessero preso la residenza a Roma. Anche Caio pagò per essersi opposto al Senato di Roma: fu costretto a farsi uccidere da uno schiavo. Poco prima era stato catturato e ucciso il suo collega Flacco, amico suo e degli Italici.


Anche il tribuno della plebe Marco Livio Druso si schierò con gli Italici, avanzando proposte di legge a favore dell'estensione della cittadinanza.

Alle calende di settembre del 91 a.C., nella Curia Hostilia, Druso parlò al Senato di Roma in favore degli Italici, ingiustamente considerati cittadini di terza classe, inferiori sia ai Romani sia ai Latini: privi del diritto di partecipare alle riunioni politiche; sottoposti a tasse, ammende e maltrattamenti; obbligati a combattere le guerre di Roma finanziando le proprie truppe, ma senza poter sperare in giuste ricompense.


Gli Italici segretamente giurarono fedeltà a Druso e cominciarono a stringere alleanze per opporsi, se necessario, militarmente a Roma.


Druso voleva far approvare dal senato la Lex Livia de civitate sociis danda, che avrebbe concesso la cittadinanza romana a tutti gli Italici senza distinzione. Era la promessa che il tribuno aveva fatto all'ambasciatore degli Italici Quinto Popedio Silone, per cui Druso aveva convocato il popolo per l'approvazione sia della Lex de coloniis deducendi, sia della Lex Livia de civitate sociis danda.

Ma in Senato si levarono accuse di tradimento all’indirizzo del tribuno. Il più accanito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno votate.


Dopo una settimana, Druso tornò a chiedere la concessione della cittadinanza per gli Italici, al fine di scongiurare una disastrosa guerra civile. Alle none di ottobre, Quinto Popedio Silone, alla testa di due legioni marse, marciò lungo la Via Valeria, fino alle porte di Roma.


Al pontefice massimo Cneo Domizio Enobarbo, inviato dal Senato a chiedergli spiegazioni, Silone lanciò la minaccia degli Italici di fare ricorso alla forza delle armi se Roma non avesse concesso loro la cittadinanza. Avuta da Enobarbo la promessa che la cittadinanza sarebbe stata concessa senza bisogno di guerre, il nobile marso si allontanò con il suo esercito. Nella successiva riunione del Senato, ascoltato il resoconto di Enobarbo, il console Lucio Martio Filippo prese la parola per rivelare di essere venuto in possesso della formula di un giuramento segreto degli Italici, di cui diede lettura:

“Giuro su Giove Ottimo Massimo, su Vesta, su Marte, su Sol Indiges, su Terra e Tellure, sugli dèi e sugli eroi che hanno dato origine al popolo dell’Italia e lo hanno assistito nelle lotte, che io considererò miei fratelli o nemici coloro che Marco Livio Druso considera suoi fratelli o nemici. Giuro che mi adopererò per il benessere e a beneficio di Marco Livio Druso e di tutti coloro che faranno questo giuramento, anche a costo di perdere la mia vita, i miei figli, i miei genitori e le mie proprietà. Se, grazie alla legge di Marco Livio Druso, diventerò cittadino di Roma, giuro che adorerò Roma come mia unica nazione e che mi legherò a Marco Livio Druso come suo cliente. Mi impegno a trasferire questo giuramento al maggior numero possibile di altri Italici. Giuro fedelmente, nella consapevolezza che la mia fede porterà la giusta ricompensa. E, se mai rinnegherò questo giuramento, possano la mia vita, i miei figli, i miei genitori e le mie proprietà essermi tolti. Così sia. Così ho giurato!”

Druso, alla circostanziata accusa di tradire Roma per i propri interessi politici ed economici, ebbe un collasso. Il giorno seguente, il tribuno tornò in Senato per ribadire il fermo proposito di far acquisire la cittadinanza agli Italici e comunicò che avrebbe presentato un’apposita legge all’Assemblea della Plebe.


Pochi giorni più tardi, subito dopo aver presentato l’annunciata proposta di legge, Druso venne assassinato: accoltellato a morte, nell’atrio della sua casa, da uno dei senatori che lo avevano accompagnato.


La sua morte fu l'unico modo trovato dal senato per bloccare le sue iniziative, affinchè il privilegio della cittadinanza non fosse concesso agli Italici.


A Marruvium, presso S. Benedetto dei Marsi, Silone ricevette la notizia dell’assassinio di Druso, suo fraterno amico e difensore degli Italici. Gli Italici compresero, con l'assassinio di Druso, che non avrebbero mai ottenuto la cittadinanza romana in modo pacifico.

Silone diramò, allora, l’ambasciata agli altri capi italici e li convocò a Corfinium per un incontro. Alcuni giorni dopo la tragica morte di Druso, nella città peligna, i capi italici decisero di muovere guerra a Roma e scelsero Corfinium come capitale della Lega Italica, conferendole il nuovo nome di “Italia”. Nominarono il Senato Italico; decisero la coniazione di monete con la scritta osca “Vitelius” e l’equivalente latina “Italia”; elessero consoli e strateghi per condurre la guerra contro Roma.


Dopo tanto sangue versato come Socii (Alleati) di Roma per quella che sentivano ormai come patria comune e dopo le lunghe e inconcludenti trattative politiche per la concessione della civitas, accadde l'inevitabile, come riferisce Velleio Patercolo (I secolo d. C.):


 "La morte di Druso fece scoppiare la guerra italica, che già da prima cominciava a sollevarsi. Infatti, sotto il consolato di L. Cesare e P. Rutilio, 120 anni fa (91 a.C.), tutta l'Italia, dopo che quel male era sorto dagli Ascolani (giacché avevano ucciso il pretore Servilio e il legato Fonteio) e, successivamente, continuato dai Marsi, era penetrato in tutte le regioni, prese le armi contro i Romani. Di tale guerra, come fu terribile la sorte, così fu giustissima la causa: chiedevano, infatti, quella cittadinanza di cui difendevano l'imperium con le armi. …Questa guerra portò via più di trecentomila dei giovani italici".


Lo scontento generale diffusosi tra le popolazioni italiche ed il mancato consenso del senato di Roma alla loro richiesta di cittadinanza romana, provocò una vera e propria insurrezione dei popoli Italici contro Roma.

Vennero nominati consoli il marso Quinto Popedio Silone per il settore centrosettentrionale e il sannita Caio Papio Mutilo per quello meridionale.


Fra i pretori figurano: il marso Publio Vettio Scatone, il peligno Publio Presenteio, il marrucino Herio Asinio, i piceni Caio Vidacilio e Tito Erennio, il sannita Mario Egnatio, il vestino Tito Lafrenio, il frentano Caio Pontidio, l’apulo Lucio Afranio e il lucano Marco Lamponio.


Successivamente, nel 90 a.C., ad Asculum [7] scoppiò una rivolta; i popoli italici decisero di scambiarsi degli ostaggi come pegno di fedeltà e, proprio per la scoperta di alcuni ostaggi peligni ad Asculum, il propretore romano Quinto Servilio minacciò gli Ascolani.  Durante la celebrazione dei Ludi vennero uccisi dal popolo il pretore proconsole Quinto Servilio Cepione, il suo legato Caio Fonteio e tutti i cittadini romani presenti ad Asculum. L'episodio inasprì gli animi e impedì la riuscita di un ultimo tentativo di accordo fra le parti.


A Roma, subito dopo la notizia del massacro di Asculum, il princeps senatus romano Marco Emilio Scauro ricevette una delegazione di venti nobili italici, provenienti da “Italia” (ovvero Corfinium), che rinnovavano la richiesta di cittadinanza. Scauro rifiutò qualsiasi negoziazione che non fosse preceduta da una piena riparazione dell’affronto perpetrato dagli Ascolani. Nell’atto di congedarsi insieme al resto della delegazione italica, Scatone consegnò a Scauro una formale dichiarazione di guerra a nome dei Marsi. Questo il testo:


 “Al Senato e al Popolo di Roma. Noi, rappresentanti eletti dalla nazione dei Marsi, dichiariamo con questo documento e a nome del nostro popolo di ritirarci dal nostro status di Socii di Roma. Inoltre, dichiariamo che non verseremo a Roma i tributi, decime, dazi o quote che ci vengano richiesti; che non contribuiremo alla costituzione degli eserciti romani con le nostre truppe; che riprenderemo a Roma la città di Alba Fucens [8] e tutte le sue terre. Considerate questo documento una dichiarazione di guerra.”


E fu l’avvio della sanguinosa guerra, che i Romani chiamarono “Marsica”, perché l’unica dichiarazione di guerra ufficiale fu quella dei Marsi, ma anche perché, se l’avessero chiamata “Italica” o “Sociale”, come sarebbe stato più appropriato, i cittadini di Roma, già sgomenti per il massacro subìto ad Ascoli, ne sarebbero stati oltremodo spaventati, per il valore e la potenza di tanti avversari.


Successivamente fu rinominata Guerra Sociale infatti, dal termine socii (alleati) e fu combattuta dal 90 all’88 a.C. tra Roma e gli Italici, i quali rivendicavano il diritto alla cittadinanza romana.

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LA CITTADINANZA ROMANA

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Essere cittadino romano comportava molti importanti privilegi, variabili nel corso della storia, con diversi "livelli" di cittadinanza. Nella sua versione più completa, la cittadinanza romana consentiva l'accesso alle cariche pubbliche e alle varie magistrature, la possibilità di votare le cariche suddette nel giorno della loro elezione, la possibilità di partecipare alle assemblee politiche della città di Roma, svariati vantaggi sul piano fiscale e soprattutto la possibilità di essere soggetto di diritto privato, ossia di poter presentarsi in giudizio attraverso i meccanismi dello ius civile (il diritto romano), di non essere indemnatus (condannato senza processo), di non subire punizioni corporali o infamanti.

Nessuno straniero infatti poteva portare in giudizio un civis romanus, che aveva il diritto di essere giudicato da un tribunale romano.


L’estensione della cittadinanza romana era uno dei capisaldi della propaganda politica popolare che tuttavia era sempre vista con sospetto dall’aristocrazia, ma anche dalla stessa plebe: il timore dei Romani era quello di perdere l’esclusiva dei privilegi che la cittadinanza romana garantiva loro e trovarsi a condividerli con altri popoli.

Socii e non Socii

La Storia

Le popolazioni che si coalizzarono contro Roma furono: Peligni, Vestini, Piceni, Marsi, Marrucini, Frentani, Sanniti e, più a Sud, Lucani e Apuli. I confederati italici disponevano di 121000 uomini divisi in: 70000 fanti e 7000 cavalieri sanniti; 40000 fanti e 4000 cavalieri peligni, marsi, frentani, vestini, marrucini.


Gli alleati organizzarono la loro repubblica sul modello romano, con capitale Corfinium. Vi erano:


2 consoli;

12 pretori;

un Senato, formato da 500 membri.

I socii si contrapponevano a Roma, che disponeva anch’essa di 121000 uomini divisi tra il console Rutilio Lupo a nord e il console Lucio Cesare a sud, mentre i Latini fedeli ai Romani fuggirono verso l'Urbe.

Non si unirono agli insorti, ma propendevano per essi, i popoli della Lucania, Campania e Apulia. Gli Umbri e gli Etruschi restarono incerti, in quanto i ricchi latifondisti erano legati da comune interesse con l'oligarchia romana; indifferenti i Greci d'Italia, spesso stretti con Roma da trattati favorevoli. Non parteciparono invece i Pretuzi, né la città sannita di Venafro già in possesso della cittadinanza romana, né le colonie latine di Alba Fucens nel paese dei Marsi ed Esernia nel Sannio, né Pinna nel paese dei Vestini, né Minazio Magio di Eclano nel paese degli Irpini.

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LA GUERRA SOCIALE

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La guerra, dichiarata nell’autunno dell’anno 91 a. C. e iniziata sul campo nella primavera successiva, fece registrare la prevalenza delle armi italiche e condusse Roma ad un passo dalla sconfitta, precipitandola nel lutto, nella paura e nella crisi economica.


Dopo l'ultima, inascoltata richiesta di concessione della cittadinanza avanzata da una delegazione italica al Princeps Senatus Marco Emilio Scauro e la contestuale consegna di una dichiarazione ufficiale di guerra firmata dai Marsi, Roma, decisa a non cedere, cominciò a prepararsi per combattere nella successiva primavera (90 a.C.). Avendo pronte al combattimento soltanto sei legioni, contro le venti che gli Italici erano già in grado di mettere in campo, i Romani si affrettarono a reclutare nuove truppe e ne iniziarono l'addestramento a Capua.

Roma sull'orlo dell'abisso

Italia

A Cneo Pompeo Strabone venne affidato il comando del fronte settentrionale, con il compito di marciare su Asculum per darle una punizione esemplare; il console Lucio Giulio Cesare, invece, affiancato da Lucio Cornelio Silla, si recò in Campania per dirigere il fronte meridionale e dispose di difendere Aesernia [9] e Nola [10], città già presidiate dai Romani. Pompeo Strabone, integrate le truppe con gli abitanti delle sue vaste proprietà terriere nel Piceno settentrionale, in aprile, partì da Cingulum [11] verso sud con quattro legioni, due di veterani e due di reclute.

Caio Vidacilio, al comando di sei legioni di Piceni, tese un'imboscata alle truppe romane mentre attraversavano il fiume Tinna [12], presso Falerium [13], presto raggiunto da Publio Vettio Scatone con due legioni di Marsi e da due legioni di Vestini guidate da Tito Lafrenio.


Fu la prima battaglia della Guerra Sociale: Strabone riuscì a rifugiarsi a Firmum Picenum [14] , colonia con Diritti Latini fedele a Roma, e Tito Lafrenio l'assediò. A Italia (Corfinium), i consoli italici appresero che i combattimenti erano iniziati in risposta ad un tentativo di invasione di Strabone: quindi, erano i Romani gli aggressori. Il console Quinto Popedio Silone restò nella Capitale italica per controllare il fronte settentrionale, mentre l'altro console, Caio Papio Mutilo, si diresse con sei legioni di Sanniti verso Aesernia, per appropriarsi di quel pericoloso avamposto romano.

Contemporaneamente, Lucio Giulio Cesare, con due legioni, marciò su Aesernia, proveniente da Teanum Sidicinum [15], non prevedendo che Scatone, che egli credeva all'assedio di Firmum Picenum, era tornato nella Marsica e si dirigeva anch'egli verso Aesernia, attraverso la Valle del Liri. Tra Atina [16] e Casinum [17] i due eserciti si scontrarono e Lucio Cesare venne sconfitto, perdendo duemila uomini, e si ritirò a Teanum Sidicinum. Il successo italico spinse Nola, Venafrum [18] e altre città della Campania meridionale a schierarsi con gli Italici.


Marco Claudio Marcello, che presidiava Venafrum, lasciò la città prima dell'arrivo dei Sanniti e riuscì a rifugiarsi ad Aesernia. Intanto, il console romano Publio Rutilio Lupo, affiancato da Caio Mario, era accampato sulla Via Valeria, con truppe non ancora sufficientemente addestrate.

All'inizio di giugno, contro il parere di Mario, Lupo inviò Caio Perperna ad Alba Fucens, colonia romana, con due legioni, che mentre si trovavano in una gola rocciosa, vennero attaccate da quattro legioni di Peligni comandate da Publio Presenteio. Quattromila soldati romani restarono sul terreno e gli altri seimila fuggirono abbandonando armi, elmi e corazze. Lupo scaricò ogni responsabilità su Perperna, lo degradò e lo rimandò a Roma. Nel frattempo, Silone, che era all'assedio di Alba Fucens, inviò Scatone, con due legioni di Marsi, a controllare i movimenti delle truppe di Lupo, il quale, di nuovo in contrasto col parere di Mario, decise di marciare verso la Marsica per andare a presidiare Alba Funcens, e divise l'esercito in due colonne.

Le legioni guidate da Mario marciarono di notte e si nascosero nei boschi durante il giorno; Lupo, invece, non fu così previdente e venne avvistato dagli osservatori che Scatone aveva dislocato sulle creste più alte. L'undici giugno, mentre le due legioni di Lupo attraversavano un ponte (probabilmente sul Liri), vennero assalite dai Marsi, che uccisero ottomila uomini, fra i quali lo stesso console e il suo legato Marco Valerio Messala; altri duemila riuscirono a fuggire dopo essersi alleggeriti degli armamenti.


Il giorno successivo, Mario, raggiunto il fiume in un punto più a valle, scoprì diversi cadaveri di legionari di Lupo trasportati dalla corrente. Risalite rapidamente le sponde del fiume, sorprese i Marsi intenti a raccogliere le armi dei romani caduti o fuggiti, ne uccise duemila e costrinse gli altri a fuggire fra le montagne. Inviati a Roma i corpi di Lupo e di Messala insieme a un resoconto dell'accaduto, Mario occupò l'accampamento di Scatone e lo fortificò, intendendo riprendere l'addestramento delle truppe.

Quando il corteo funebre del console e del legato giunse a Roma, la città cadde in un profondo sconforto, tanto che magistrati e senatori si vestirono a lutto. Si decise di non nominare un altro console, le cui funzioni militari vennero affidate, unitamente, a Caio Mario e Quinto Servilio Cepione. Cepione, accampato presso Varia con due legioni a ranghi ridotti, era impaziente di marciare contro i Marsi e sollecitò Mario ad affiancarlo. Mario, invece, che aveva preso con sé parte dei legionari sfuggiti all'attacco di Presenteio e quelli sopravvissuti allo scontro con Scatone e disponeva quindi di tre legioni a ranghi potenziati, ritenendo di dover prima completare l'addestramento, ignorò le richieste di Cepione.

Un giorno, il console italico Silone si presentò al campo di Cepione affermando di essere fuggito da Corfinium per contrasti con gli altri capi italici e chiedendo la protezione di Roma. Mostrò al comandante romano, di cui conosceva la cupidigia, due muli carichi di lingotti d'oro, parte del tesoro dei Marsi che egli aveva sottratto e voleva donare a Roma. Gli mostrò anche i suoi due gemelli, Italico e Marsico, che intendeva lasciare in ostaggio nel campo romano mentre avrebbe guidato Cepione e le sue due legioni a cogliere di sorpresa le truppe marse e a prendere il resto del tesoro, che egli aveva nascosto. A Cepione non sembrò vero che gli si stesse presentando una così ghiotta occasione di sorprendere i Marsi e, magari, di tenere per sé qualche lingotto d'oro. Non sospettando minimamente che quell'oro non era altro che piombo placcato e che i gemelli non erano i figli di Silone, ma schiavi, Cepione cadde nel tranello.

Cepione e i suoi uomini seguirono Silone lungo l'Aniene fino a Sublaqueum [19], dove attraversarono il fiume; poco più avanti, a un segnale di Silone, quattro legioni di Marsi spuntarono all'improvviso e si riversarono sulla colonna romana annientandola. Lo stesso Silone si incaricò di giustiziare Cepione, che riteneva fra i diretti responsabili dell'assassinio di Druso. Anche nel settore meridionale la guerra volgeva in favore degli Italici. Mutilo passò il Volturno e si recò a Noula, che si era ribellata ai Romani e aveva sopraffatto e imprigionato la guarnigione lasciatavi da Lucio Cesare e comandata da Lucio Postumio. Questi preferì lasciarsi morire di sete e di fame insieme ai suoi tribuni e centurioni piuttosto che passare nelle file italiche, come gli era stato proposto. Il console italico proseguì la sua avanzata raggiungendo Stabiae, Salernum, Surrentum, Pomperi ed Herculaneum [20], che si dichiararono tutte in favore dell'Italia.

Caio Vidacilio invase la Puglia e, senza colpo ferire, si impadronì di Larinum, Teanum Apulum, Luceria, Ausculum [21], i cui uomini si arruolarono nelle legioni italiche. Mutilo intraprese anche azioni sul mare: impossessatosi di quattro flottiglie di navi da guerra, attaccò per due volte Neapolis e poi Puteoli, Cumae e Anxur [22], contrastato dall'ammiraglio romano Otacilio; quindi, pose assedio ad Acerrae [23].

Intanto a Puteoli i fratelli Sesto e Caio Giulio Cesare [24] sbarcarono con duemila cavalieri numidi e ventimila fanti, tra cui molti veterani che avevano combattuto sotto il comando di Mario in Africa. Mentre queste truppe vennero condotte a Capua per essere equipaggiate e riaddestrate, Silla , per allontanare Mutilo da Acerrae, simulò un attacco agli assedianti di Aesernia: elusa con uno stratagemma la sorveglianza del capo sannita Duilio alla Gola di Melfa, l'attraversò e raggiunse rapidamente Aesernia; il sannita Caio Trebazio, che comandava l'assedio, non riuscì a impedirgli l'ingresso in città, dove Silla portò rifornimenti di armi e viveri al comandante Marco Claudio Marcello, né l'uscita, quando lo stratega romano decise che era il momento di tornare a Capua.


Nel frattempo, Mutilo aveva spostato parte delle sue truppe per seguire il finto attacco di Silla ad Aesernia, ma non aveva lasciato il comando dell'assedio di Acerrae. Inoltre, Vidacilio, avendo trovato a Venusia [25] un figlio del re Giugurta di Numidia, Oxintas, che vi era tenuto in ostaggio, lo mandò al campo di Mutilo. Perciò, quando Lucio Cesare si portò all'attacco degli assedianti di Acerrae schierando in prima linea i cavalieri della Numidia, Mutilo mostrò loro Oxintas e i cavalieri si rifiutarono di proseguire l'attacco, cercando, anzi, di passare nelle file italiche.


Lucio Cesare fu costretto a rimandare in patria gli ormai inutili cavalieri numidi e dovette poi difendersi nel suo stesso campo da un contrattacco di Mutilo, fallito il quale, il console italico si diresse verso Aesernia. Contro il parere di Silla, Lucio Cesare si mosse anch'egli verso Aesernia con tutte le otto legioni disponibili. Intanto, Caio Mario, finalmente nominato comandante in capo del fronte centrosettentrionale, ritenendo giunto il momento di sferrare l'attacco contro i Marsi, chiese al console di inviargli due legioni di rinforzo comandate da Silla.

Storia Antica
"SCONFITTA VITTORIOSA DEGLI ITALICI"

La storia

Le sorti della guerra volgevano ormai decisamente in favore dei Romani. La capitale, Corfinium, cadde. Lucio Cornelio Silla liberò tutta la sua abilità strategica per piegare i valorosi Italici e soltanto Sanniti e Lucani restarono in lotta. Roma era funestata da guerre civili fra democratici e aristocratici, e Sanniti e Lucani (cui si aggiunsero Etruschi e Campani) parteciparono ai combattimenti a fianco dei democratici.

Gli Italici perdono la guerra, ma vincono la causa

Italia

Nel 79 a.C., l’ultima resistenza italica fu definitivamente spenta, ma i Socii italici avevano ormai ottenuto la cittadinanza che reclamavano.


Anno 89 a.C.: nel settore centrale, Cneo Pompeo Strabone, riconquistata la colonia romana di Pinna, costrinse alla capitolazione i Vestini e i Frentani, mentre il suo pretore Servio Sulpicio Galba sconfisse definitivamente i Marrucini presso Teàte [34]. La Marsica venne occupata da Lucio Cornelio Cinna e Marco Cecilio Cornuto e l’ex colonia latina di Alba Fucens riconquistata.

Anche la tenace resistenza dei Peligni venne sconfitta: ITALIA (Corfinium), la capitale, cadde il 30 aprile. Non è ben chiaro a chi si debba attribuire la paternità dell’espugnazione di Corfinium, se al console Cneo Pompeo Strabone e al suo pretore Servio Sulpicio Galba o a Lucio Cornelio Silla, che, secondo Plutarco, combattendo contro i Peligni nell’89 a.C., vide fuoriuscire una lingua di fuoco da una fenditura del terreno, visione che gli indovini interpretarono come presagio di gloria. [35]

Il Senato Italico si trasferì nel Sannio, a Bovianum [36], capitale dei Pentri, che divenne la nuova capitale dei Confederati.


Lucio Cornelio Silla, che, dopo la misteriosa morte del console Catone Liciniano, era rimasto, di fatto, comandante in capo del fronte meridionale, fece imbarcare due legioni a Puteoli [37] e le affidò al comando del suo legato Caio Cosconio, con il compito di doppiare la punta calabra, risalire lungo la costa adriatica, sbarcare in Puglia e andare a liberare la Via Minucia a sud di Larinum e la Via Appia a sud di Ausculum; quindi, di portarsi nel Sannio orientale, dove lo stesso Silla intendeva recarsi via terra, per un’azione combinata a tenaglia.

Silla, con Tito Didio e Quinto Cecilio Metello Pio, marciò con quattro legioni su Pomperi, tenuta dai Sanniti, dopo aver predisposto un contemporaneo attacco dal mare ad opera di una flotta comandata da Aulo Postumio Albino, poi lapidato dai suoi uomini con l’accusa di tradimento e sostituito da Publio Gabinio. I Pompeiani, sottoposti ad un inaspettato lancio di fascine ardenti dalle navi, chiesero rinforzi.

Il giorno seguente, giunsero sul posto oltre ventimila Sanniti capitanati da Lucio Cluentio. Silla, che aspettava il ritorno di settemila uomini con gli approvvigionamenti, non lasciò a Cluentio il tempo di attestarsi e gli lanciò contro i suoi tredicimila legionari. La battaglia fu feroce e i Romani stavano per capitolare quando giunsero loro i rinforzi: Cluentio fu costretto a ritirarsi verso Noula, inseguito da Silla.


I Nolani, vista l’inferiorità sannita e temendo ritorsioni da parte dei Romani, rifiutarono di aprire le porte ai Sanniti, che vennero sterminati dinanzi alle mura della città. In cinquantamila restarono sul campo; Cluentio perì per mano dello stesso Silla, che vnene acclamato “imperator” dai suoi uomini, dai quali ricevette anche la “Corona d’Erba”, l’ambìto riconoscimento dovuto a chi salva un esercito romano.

Dopo aver fatto venire da Capua una legione, comandata da Appio Claudio Pulcher, per tenere Nola sotto assedio, Silla tornò con le sue legioni vittoriose all’accampamento presso Pomperi, che era ancora sottoposta ai lanci infuocati dal mare. Il giorno successivo Pomperi si arrese. Silla, allora, con due legioni, andò a riconquistare Stabiae e poi Surrentum, mentre le altre due legioni, guidate da Tito Didio, posero sotto assedio Herculaneum, che resisteva strenuamente.

Silla, percorrendo la Via Appia, si portò ad Aeclanum, in Irpinia [38], e intimò la resa entro un’ora. Al rifiuto degli Irpini, Silla diede fuoco alle fortificazioni, che non erano in muratura ma lignee, saccheggiò la città, la diede alle fiamme e fece uccidere tutti, anche le donne e i bambini. Poi proseguì sulla Via Appia, verso Sud, fino all’altra roccaforte irpina, Compsa [39]. Qui, essendo giunta la notizia della strage perpetrata ad Aeclanum, trovò le porte aperte e i cittadini pronti alla resa. Questo risparmiò alla città il saccheggio e la distruzione.

Da Compsa, Silla inviò ad Aulo e Publio Gabinio l’ordine di andare, con due legioni, a liberare le città lucane lungo la Via Popilia, fino a Rhegium [40]. Herculaneum venne conquistata due giorni prima delle idi di giugno da Tito Didio, che cadde in combattimento. Intanto, Caio Cosconio, sbarcato in Puglia, nelle vicinanze di Salapia [41], ridusse in cenere la città, quindi conquistò Cannae [42], guadò l’Ofanto e marciò su Canusium [43]. Subì una sconfitta scontrandosi con i Sanniti di Caio Trebazio, che lo inseguirono; guadò nuovamente l’Ofanto, sorprese gli inseguitori mentre attraversano il fiume e li sbaragliò. Caddero quindicimila Sanniti; Trebazio si rifugiò con i pochi sopravvissuti a Canusium, che venne assediata.

Cosconio lasciò Lucio Lucceio a tenere d’assedio la città e andò ad occupare Ausculu, Apulum e Larinum. Capitolò anche Canusium: Lucceio saccheggiò la città ed emulò Silla uccidendo tutti gli abitanti. Cosconio si diresse verso il territorio frentano. Silla guidò il suo esercito in una lunga e faticosa marcia per attraversare l’arduo territorio che lo separava dall’ Alto Volturno, dove, tra Venafrum e Aesernia, era accampato l’esercito sannita, comandato dal console italico Caio Papio Mutilo. Questi ricevette una terribile notizia: Mario Egnatio, che egli aveva inviato ad intercettare Cosconio con un esercito di Sanniti e Frentani, era stato sconfitto in una battaglia svoltasi presso Larinum ed era caduto sul campo.

Ciò spinse Mutilo a muoversi. Silla, che aspettava, nei pressi, un’occasione propizia, attaccò proprio mentre i Sanniti stavano smontando l’accampamento. Era una nuova, pesante sconfitta per gli Italici: Mutilo, gravemente ferito, riuscì a rifugiarsi col resto del suo esercito ad Aesernia. Silla lasciò il suo legato Lucio Licinio Lucullo ad assediare la città e marciò su Bovianum. All’avvicinarsi dei Romani, il Senato Italico abbandonò Bovianum e riuscì a rifugiarsi nell'assediata Aesernia. Grazie ad abili manovre ideate da Silla, che finse di attaccare dalla strada di Aesernia e invece sorprese i Sanniti dalla direzione di Saepinum [44], Bovianum venne conquistata ed occupata dall’esercito romano. Il pretore italico Marco Lamponio, con i suoi Lucani, fu costretto a rifugiarsi sui monti, da dove effettuò rapide sortite contro i Romani, che avevano ripreso il controllo delle vie Appia, Minucia e Popilia.

Sul fronte settentrionale, intanto, Pompeo Strabone faceva onore al suo nomignolo di “carnifex, ovvero il carnefice. Egli, infatti, entrato vittorioso in Asculum, inscenò un plateale e crudele processo, condannando a morte gli Ascolani per il tradimento compiuto con la rivolta, che era costata la vita al propretore romano Quinto Servilio, al suo legatus C. Fonteio e a tutti i cittadini romani ivi residenti ed aveva segnato l’inizio della guerra con gli Italici.

Quindi, fece eseguire all’istante ogni condanna, così che, alla fine del giorno, cinquemila cadaveri furono ammassati nella piazza, mentre donne e bambini vennero scacciati oltre le mura, senza cibo e senza abiti adeguati al freddo di novembre.

All’inizio di dicembre, Silla era a Roma per candidarsi al consolato. Anche Strabone tornò a Roma, ma per un motivo diverso: celebrare il suo trionfo. Il suo cocchio trionfale era preceduto da un gran numero di piccoli orfani italici, rastrellati nelle campagne picene, che stavano a rammentare quanti Italici avevano perso la vita per mano di Cneo Pompeo Strabone. Lucio Cornelio Silla, acclamato vincitore degli Italici, fu eletto primo console per l’anno 88 a.C.; Quinto Pompeo Rufo era il console giovane.

A presiedere il Collegio dei Tribuni della Plebe venne eletto Publio Sulpicio Rufo. Strabone ottenne dal Senato l’imperium proconsolare e conservò il comando militare nel Piceno e nell’Umbria. Silla mantenne il comando nel settore centro-meridionale, affiancato da Quinto Cecilio Metello Pio e Mamerco Emilio Lepido Liviano. A Cneo Papirio Carbone venne affidato il comando in Lucania, mentre Lucio Cornelio Cinna e Marco Cecilio Cornuto vennero confermati nella Marsica, e Servio Sulpicio Galba nei territori di Marrucini, Vestini e Peligni.

Nel mese di marzo (88 a.C.), la campagna militare riprese. Sanniti e Lucani erano ancora in armi e continuarono ad occupare diverse ex colonie romane, tra cui Venusia ed Aesernia, comandata, quest'ultima, da Caio Papio Mutilo, paralizzato, ma ancora capo riconosciuto e combattivo. Questi affidò poi il comando al marso Quinto Popedio Silone, che lo assunse non più come console italico quanto in nome del Sannio, giacché, ormai, non si poteva più parlare di Confederazione: la lotta era ora per l’indipendenza da Roma.

La guerra con gli Italici non era più un’emergenza primaria per i Romani. Lo provava il fatto che Silla restò a Roma per farsi assegnare il comando di una spedizione contro Mitridate, re del Ponto, che aveva approfittato della guerra in Italia per invadere le province romane dell’Asia Minore e massacrare i numerosi cittadini romani ed italici che vi si trovavano. Allo stesso mandato aspirava Caio Mario, perciò si aprì una durissima lotta, non solo politica, per risolvere la questione.

Il tribuno Publio Sulpicio Rufo, del partito democratico, fece votare la piena applicazione della legge Plautia-Papiria, prevedendo la distribuzione degli Italici neo-cittadini fra le trentacinque tribù di Roma anziché in tribù aggiuntive, che non avrebbero avuto alcun ruolo sostanziale nella vita politica di Roma [45]. Inoltre, Sulpicio fece revocare a Silla e assegnare a Mario il comando della guerra contro Mitridate.

Silla, allora, con le sue cinque legioni già pronte in Campania per la guerra d’Asia, alle idi di novembre marciò su Roma, accompagnato dal console giovane Quinto Pompeo Rufo, invase la città e si scontrò con i civili raggruppati da Mario e Sulpicio nel Foro Esquilino. Le legioni ebbero la meglio e si impadronirono di Roma. Mario e Sulpicio lasciarono, di nascosto, la città: il primo, dopo essere stato catturato a Minturnae [46] da Sesto Lucilio, cugino di Strabone, venne liberato grazie a Burgundo, il gigantesco schiavo cimbro incaricato di giustiziarlo, e riuscì a riparare in Africa; il secondo venne ucciso, come altri capi del partito democratico.

Intanto, il console italico Quinto Popedio Silone, dopo aver riconquistato Bovianum, morì per mano di Mamerco [47], combattendo contro le legioni di Metello Pio, presso Teanum Apulum. Gli Apuli furono costretti alla resa. Sanniti e Lucani, riunitisi sotto il comando di Pontio Telesino, continuarono a lottare per conquistare l’indipendenza da Roma.

Per l’anno 87 vennero eletti consoli Cneo Ottavio, del partito aristocratico, e Cornelio Cinna, del partito democratico. Mentre Metello Pio continuava a condurre la guerra contro Sanniti e Lucani e Appio Claudio teneva sotto assedio Nola, Silla partì per la Grecia, e Cinna, a Roma, riprese la lotta politica di Sulpicio per la piena uguaglianza degli Italici.

Si riaccese così una sanguinosa guerra civile: Ottavio costrinse Cinna a fuggire; questi chiese ed ottenne l’appoggio di Sanniti e Lucani e trovò seguaci anche tra altri popoli italici, Peligni compresi; inoltre, si unirono a Cinna sia Appio Claudio, che lasciò l’assedio di Nola, sia Caio Mario, che, tornato dall’esilio forzato in Africa, aveva ottenuto anche l’appoggio degli Etruschi. Intanto, Pontio Telesino occupò il Bruzio e Metello Pio venne incaricato dagli aristocratici di chiedere l’appoggio dei Sanniti, i quali, però, per bocca di Mutilo, chiesero concessioni tali da non poter essere accettate. Metello Pio, con la maggior parte delle legioni, corse a proteggere Roma dai democratici; i Sanniti ne approfittarono per riconquistare il controllo del territorio, sbaragliando i pochi reparti romani rimasti nel Sannio.

Anche Pompeo Strabone venne richiamato a Roma, stretta d’assedio da Cornelio Cinna, Caio Mario, Papirio Carbone e Quinto Sertorio. A fine dicembre, Caio Mario si fece nominare console per l’anno successivo (86) insieme a Cinna e, preso da una follia vendicativa, instaurò il terrore. Di nuovo scorreva sangue romano entro le mura di Roma, e le epidemie, scoppiate per la presenza di tanti eserciti intorno alla città, mieterono ulteriori vittime; tra queste Pompeo Strabone, il cui corpo venne straziato dai cittadini esasperati.


Il settimo consolato di Mario durò solo pochi giorni, poiché il “Grand’Uomo”, il “Terzo Fondatore di Roma” venne stroncato da un terzo ictus nei primi giorni di gennaio dell’anno 86. Sanniti e Lucani, tornati in possesso dei loro territori, non accettarono la cittadinanza nemmeno quando venne offerta loro dai democratici e conservarono, di fatto, l’indipendenza da Roma.

Cinna non indisse nuove elezioni e mantenne la carica consolare, insieme a Carbone, fino all’84, quando, mentre si preparava ad andare a combattere in Grecia contro Silla, venne ucciso dai suoi stessi soldati.

Nell’83, eletti consoli Cornelio Scipione l’Asiatico e Caio Norbano, Silla tornò in Campania, sconfisse Norbano e convinse le legioni di Scipione a passare dalla sua parte. Quindi si portò nella Marsica, dove si unì all’esercito di Cneo Pompeo il Giovane, figlio di Cneo Pompeo Strabone.


Per l’anno 82 vennero eletti consoli Papirio Carbone e Caio Mario il Giovane, figlio del “Grand’Uomo”. Il primo ottenne l’aiuto degli Etruschi, il secondo quello dei Sanniti. Gli ultimi Italici in guerra contro Roma, Sanniti, Lucani, Campani ed Etruschi, legarono le loro aspettative di indipendenza alle sorti del partito democratico di Mario e Carbone, contro il partito aristocratico di Silla e Cneo Pompeo.

La lotta si trascinò fino all’attacco a Roma, che in quell’anno (82) arrivò quasi alla capitolazione, ma poi finì per avere la meglio: cinquantamila uomini dei due schieramenti persero la vita, e tra questi i comandanti: Pontio Telesino, sannita; Gutta da Capua, campano; Marco Lamponio, lucano, e Mario il Giovane, romano, che si fece uccidere da uno schiavo. Nola resistette fino all’80, quando venne espugnata da Silla.


Caio Papio Mutilo si suicidò e i Nolani preferirono dare alle fiamme la città piuttosto che lasciarla nelle mani di Silla. Silla infierì contro gli indomiti Sanniti e le loro città, che vennero devastate. Nel 79 a.C. cadde l’ultima città italica: l’etrusca Volterra.

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Una vittoria per entrambi

La storia

Fu una durissima guerra, di cui restò a lungo memoria in Roma, tanto da essere presa, per circa un secolo, come punto di riferimento per le date, ma poi rimossa dalla memoria collettiva, sì da essere oggi sconosciuta ai più.


La dittatura del vincitore, Silla, spense definitivamente la causa degli Italici, che, pur nella sconfitta, ottennero i diritti di uguaglianza politica e sociale che Roma si era ostinata a negare durante mezzo secolo di lotte politiche. Fu una vittoria militare per i Romani, ma una vittoria politica per gli Italici.

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"Una, libera, indivisibile"

La Storia

Si può concludere che, se non avesse sfaldato la compattezza della Confederazione degli Italici, con la graduale concessione di quei diritti di cittadinanza che avevano scatenato la guerra, Roma difficilmente avrebbe conservato la supremazia sulla Penisola.

Vi fu dunque per la prima volta la consapevolezza che, al di là delle differenze tra i vari popoli coinvolti nella Guerra Sociale, esistevano interessi comuni a tutti da difendere.

Il sangue versato da Italici e Romani, le sofferenze patite da soldati e civili furono il prezzo da pagare per raggiungere l'integrazione delle popolazioni peninsulari, storico presupposto dell'odierna Italia "una, libera e indivisibile".